Passaggio a livello: Ci vorrebbe la fata turchina
24-04-14
Ubaldo Pacella
Disuniti, senza una meta, incapaci di progettare un futuro e di darsi una strategia, scossi dai flutti, privi di bussola o meglio con l’ago inchiodato sulla “E” che in questo caso è quella dell’economia e in subordine del confine orientale europeo: questa laconica descrizione dice molto sull’Europa Unita. Un continente drammaticamente alla deriva per valori e progettualità, chiuso nei rivoli di un egoismo nazionale, incapace di pensare in grande e ancor più di muoversi e reagire con le frequenze richieste dalla storia moderna.
I naufragi - soprattutto quelli degli ultimi mesi - di cui siamo spettatori cinici, dimostrano con plastica evidenza quanta poca comunione vi sia nei 16 o nei 28 Stati che soffertamente cercano di stare insieme nei palazzi di Bruxelles, mentre le cancellerie nazionali si muovono da sole, in ordine sparso e rispondendo a logiche e criteri utili solo alle popolazioni che li eleggono.
È necessaria una nuova consapevolezza e un profondo bagno di umiltà morale per dare impulso e dignità all’azione dell’Europa. L’ossessione per i bilanci, le scelte economiche, il rispetto dei patti finanziari evapora di un colpo quando sono altre le questioni in gioco. Il ruvido e quanto comprensibile atteggiamento nei confronti del riottoso governo greco si sbriciola quando si affrontano temi di politica estera, di socialità solidale, di cooperazione.
Il rigore diviene lassismo e disinteresse. I confini sono quelli delle sfere di influenza degli Stati più importanti, uno sguardo strabico verso l’oriente russo coniugato con il più palese disinteresse verso la sponda sud del mediterraneo, grazie anche alla distrazione della Francia che vorrebbe far dimenticare lo scellerato protagonismo di Sarkozy nel teatro libico.
Le scelte non dovrebbero essere fatte sull’onda delle emozioni o sotto l’urgenza di eventi tanto gravi quanto lungamente annunciati. I tecnocrati di Bruxelles tuttavia dimostrano la scarsa capacità di presa che hanno sui più importanti governi nazionali, prigionieri delle povere ragioni populiste che ora l’uno ora l’altro Stato pone ad argine del proprio contributo politico.
La tensione aggressiva della Russia di Putin non va sottovalutata, ma questa è facilmente riconducibile a consolidati modelli ed equilibri di politica internazionale a livello planetario. Una dialettica aspra, talvolta molto pericolosa ma pur sempre diplomatica e riconosciuta secondo canoni collaudati da linea rossa Washington-Mosca.
Ben diverso e molto più preoccupante è lo scenario che si apre sul fronte sud: tutto il mediterraneo è scosso da conflitti terroristici e interetnici che saldano in una scia di terrore, di violenza e di morte il continente Africano e il Medioriente. Una dorsale preoccupante ove l’angheria, il malaffare, lo sfruttamento e lo schiavismo la fanno ormai da padron. È un teatro di guerra instabile dove occorre operare con grande lungimiranza, in una logica solidale, ma al tempo stesso con ancor più energia e durezza su prevenzione e repressione rispetto ad ogni tipo di violenza, prima tra tutte quella dei mercati di morte della nuova tratta di schiavi.
Vogliamo ricordare in analogia a quanto fatto tra la fine del ‘700 e i primi decenni dell’800, quando Francia, Regno Unito e Stati Uniti decisero di stroncare i traffici di uomini dall’Africa e dall’Asia verso l’occidente. L’impegno congiunto delle flotte e il fare terra bruciata dei mercanti nei luoghi di origine dell’immondo commercio ne segnarono l’immediato ridimensionamento e la scomparsa nel giro di qualche anno. Come a dire che un intervento incisivo dell’Europa in concerto con Stati Uniti, Russia e Cina potrebbe stroncare questi traffici in pochissimo tempo, iniziando a colpire le fonti economiche che lo alimentano, quella stessa finanza alla quale guardano in modo così occhiuto i politici di Bruxelles.
Le grandi migrazioni non si governano con le baionette e il filo spinato, bensì si orientano solo attraverso politiche di sviluppo locale, di integrazione, di solidarietà. Tutto ciò che manca oggi e che finisce per alimentare una diaspora due volte ingiusta e colpevole poiché priva ampie zone della popolazione che storicamente vi è insediata, costringendole ad una perdurante subalternità, rendendole ancor più marginali di quanto lo siano oggi. Questi flussi incontrollati determinano inoltre instabilità, riflusso populista e sospetto nei Paesi occidentali logorati da duemila giorni di crisi economica.
Ci vorrebbe la fata turchina del caro Collodi per trovare d’incanto la soluzione a problemi trascurati per decenni. Dobbiamo essere consapevoli che, iniziando oggi ad affrontare in modo coerente, con lungimiranza e passione il tema di uno sviluppo equilibrato e sostenibile dei popoli, riusciremo fornire alle future generazioni strumenti più duttili per coniugare diritti dell’uomo e solidarietà, crescita e inclusione sociale.
Sono trascorsi settant’anni dall’ultima volta che il Mediterraneo ha visto tanti naufragi e immani tragedie. Ieri l’inabissarsi di navi da guerra e sommergibili, oggi di barconi dolorosi. Siamo chiamati a ricostruire una prospettiva di pace, con un supplemento di valori non più legati agli indici di borsa e ai tassi di cambio.
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