Il senso del garantismo, secondo me
Il Foglio, 08-02-2015
Luigi Manconi
Per quanto vada scrivendo, ormai da decenni, su queste rispettabili colonne e altrove, il Giornale mi accusa di voler tutelare "i diritti umani di tutti, proprio tutti, anche del più fetido spacciatore e del più spietato criminale" (27 gennaio 2015). Ma va! E io che, da provincialotto cresciuto a Sassari all'ombra della parrocchia di San Giuseppe, credevo che fosse questo, proprio questo - esclusivamente e precisamente questo - il senso del garantismo. E se il garantismo fosse davvero inteso quale categoria fondante lo stato di diritto, come pure dovrebbe essere, non ci troveremmo ancora attorcigliati e intorcinati, vischiosamente avviluppati a nodi destinati a non sciogliersi mai. È mai possibile che vi sia ancora qualcuno che voglia la condanna di Erri De Luca per le parole da lui pronunciate? Le parole! Perle di saggezza o sesquipedali minchiate che siano, si tratta comunque di fonemi. Ed è davvero puerile immaginare che eventuali atti di sabotaggio effettivamente compiuti da militanti No Tav siano stati determinati, o sollecitati, o incentivati o anche solo legittimati, dalle affermazioni di uno scrittore di media qualità, come De Luca.
D'altra parte, questi ha avuto buon gioco a ricordare come il verbo sabotare abbia una pluralità di significati e richiami una varietà di esperienze storiche, non certo tutte riducibili ad atti di violenza e a manifestazioni cruente (leggere in proposito le parole dedicate a questo metodo da Aldo Capitini in Le tecniche della nonviolenza, Libreria Feltrinelli, 1967). E ha fatto bene a richiamare il "buon uso del sabotaggio", teorizzato e praticato dal Mahatma Ghandi, al quale non si rende giustizia presentandolo - come spesso accade - quasi fosse uno sprovveduto irenista o un innocuo fricchettone. Tutto ciò contribuisce non solo a rendere poco plausibile l'accusa di "istigazione", ma soprattutto consente di misurare la distanza profonda tra libertà di espressione (di qualunque espressione) e commissione di reati.
E, ancora, se consideriamo le parole dei poeti e dei narratori in senso esclusivamente testuale e letterale e nelle loro implicazioni materialmente consequenziali, avremmo davvero inferto un colpo mortale alla poesia e alla narrativa. Ne avremmo ucciso tutta la felice ambiguità e la cangiante impalpabilità, la forza evocativa e immaginifica, la doppiezza metaforica e perifrastica, l'allegria e la malinconia del gioco delle immagini e delle allusioni, la violenza e la mitezza della lingua. Se così fosse, e se un tale "disegno criminoso" andasse a buon fine sarebbe certamente peggio di un atto di sabotaggio contro l'alta velocità. D'altra parte "tutte le grandi rivoluzioni della vita umana avvengono nel pensiero", come scriveva, tra gli altri, Lev Tolstoj (ed è il terzo teorico della nonviolenza che mi capita di citare oggi).
É forse contorto, il filo che seguo, e me ne scuso, ma è quasi inevitabile arrivare al punto dove, percorrendo a ritroso l'itinerario dell'elaborazione intellettuale, si incontri la formazione del "pensiero bambino". É il percorso che fa ogni volta chi progetta un mutamento, ma è anche quello che sperimentano i bambini che maneggino i primi concetti astratti. "Che cos'è lo zero?" chiede il maestro ai piccoli allievi della sua classe. "E' un punto interrogativo", "é una cosa che non si vede", "è una cosa che non si può contare: se conti uno lo conti, se conti zero non conti niente". I bambini pensano grande di Franco Lorenzoni (Sellerio, 2014) è il libro di un'avventura educativa: racconta un anno di scuola di una quinta elementare in un paesino umbro, Giove. Sono lezioni non convenzionali quelle del maestro Lorenzoni, quasi maieutiche: più che trasmettere nozioni agli alunni, si cerca di tirar fuori da essi un sapere che giace, semplice, in fondo ai ragionamenti più complessi. E come nella scuola aristotelica il punto di partenza di ogni indagine è una domanda: "Che cos'è?" Nelle risposte dei bambini c'è tutta la fatica e lo sforzo della mente umana che arriva per la prima volta all'astrazione.
In questo arrischiarsi a tentoni si mostra, come miniaturizzato, il paradigma del tracciato che porta alla nascita del pensiero occidentale. E, infatti, quando Parmenide arriva a pensare l'astratto emancipandosi dalla tradizione greca arcaica - per la quale ogni parola pensata e pronunciata corrispondeva ad un oggetto reale - afferma la realtà di ciò che non è tangibile, né visibile. Così gli alunni della scuola di Giove. Ed anche se il loro non è che un seme di pensiero, le conclusioni a cui giungono talvolta, hanno dello sbalorditivo. Come quando richiesti di un'interpretazione del mito della caverna di Platone rispondono: "Il fuoco della caverna potrebbe essere il mezzo della filosofia, perché attraverso il fuoco si sono fatte le ombre e le ombre sono mezze vere e mezze false. É come la filosofia: ti porta in mezzo alle cose che pensi". É una pedagogia, quella di Lorenzoni, che conduce gli allievi a scrutare e a indagare le cose in cui sono immersi, i caratteri, gli eventi, gli occhi dei coetanei. E il punto di arrivo, come appare chiaramente agli stessi bambini, è la diffidenza verso ogni imposizione di verità: "la filosofia non dà la verità, dà possibilità, perché la filosofia è tutto un forse", "è un viaggio nel tempo ma anche nello spazio". "La filosofia è farsi delle domande. É infinita". Può darsi migliore educazione alla libertà, di questi tempi?