Passaggio a livello: Le politiche economiche per l'Europa: ricominciare daccapo
Ubaldo Pacella
Le politiche economiche e monetarie dell’Unione europea hanno decisamente peggiorato la crisi economica nel vecchio continente. Una valutazione senza appello sulla quale sono unanimemente d’accordo, ed è un fatto eccezionale, tutti gli economisti e i centri studi. La scelta di un rigorismo occhiuto, inflessibile nell’applicazione di alcune direttive, soprattutto nei confronti dei paesi del sud Europa cela, nemmeno troppo, una visione dirigista, improntata ad una sfiducia e al tempo stesso una supponenza nei confronti di altre culture che non siano quelle germanofile.
Hanno di certo colpe gravi quei paesi, con l’Italia in prima fila, che non hanno né voluto né saputo interpretare lo scenario dell’unificazione monetaria, rimandando ad un tempo indefinito quelle scelte coraggiose, quanto impopolari che avrebbero salvaguardato buona parte del settore produttivo italiano. Una mancanza di strategie, di coraggio, ancor più colpevole se impastata di populismo e insipienza come quella dei Governi Berlusconi - Tremonti o quella dei Prodi - Bertinotti. Gli uni e gli altri da sponde diverse responsabili dell’attuale condizione degli italiani. Sono senza sconti, a mio parere, le responsabilità di chi ha scelto di pesare sul futuro dei propri figli e di se stesso per non avere la determinazione per smontare una società iniqua, ingiusta e costruita sugli interessi di parte, sull’opacità, sulle rendite di posizione di ogni genere, allo stesso tempo che sulle molteplici corporazioni. Un intreccio mortale capace di strangolare il nostro Paese dagli inizi degli anni ’80, da quella Milano da bere Craxiana in poi che oggi si è tramutata in una miscela ancor più indigeribile dell’olio di ricino e di quello di fegato di merluzzo. Il fallimento di una generazione politica, non solo di una stagione, è sfociato come tradizione dell’Italia unita, nel “Renzismo”.
L’epopea dell’uomo faber capace di rovesciare ogni stanchezza e ogni disagio sociale, come avevano tentato in modo fallimentare Crispi, in parte Giolitti, Benito Mussolini e da ultimo Berlusconi, si manifesta oggi nel nuovo Premier. Affetto da egocentrismo politico che pensa di mutare da solo un sistema, con alleanze fragili. Quale sarà l’effetto finale? Un cambiamento reale, indispensabile per far riprendere al Paese un cammino virtuoso oppure il fallimento della Patria e dell’intera società per essere inghiottito dalla rete degli interessi di parte? Capaci negli ultimi 40 anni di consumare ogni energia positiva lasciandoci eredi di un’Italia smembrata nel suo stesso tessuto sociale.
È un piano inclinato su cui corre anche il presidente del consiglio Matteo Renzi, nonostante la gagliarda determinazione del quarantenne e la sua strepitosa abilità dialettica, tuttavia incapace di piegare la realtà ai suoi desideri. Ho sostenuto, più volte, la necessità di uno stravolgimento dei modelli su cui poggia l’Italia e la politica. Ho ritenuto utile l’incisività del premier, pur sorda ad ogni intelligente richiamo, per le grandi riforme sul piano politico, amministrativo ed economico. Oggi tuttavia sembra smarrirsi nella palude della quotidianità ogni efficace disegno strategico. Il peso di un’economia in fallimento e di un debito pubblico che taglia drammaticamente la via ad ogni altra iniziativa mette il piombo nelle ali del Renzismo. Non è evocando un conflitto sociale con il sindacato o con la parte più riottosa e antagonista di questo che si trova il filo rosso per giungere alla meta: una società più equa, moderna, che dia speranze soprattutto ai giovani.
Il limite attuale, piaccia o no, non è quello di un insulso, deprecabile e inutile scontro a sinistra. L’ennesima contraddizione di uno schieramento ipoteticamente progressista che non riesce a fare a meno dei vincoli identitari dell’ideologia, anche quando quest’ultima è stata spazzata via dalla storia. Il ribellismo di qualche nipotino di Occhetto non aggiunge né toglie nulla alla fragilità dell’attuale Presidente del Consiglio, la cui proposta politica appare monca e asfittica. Non è l’eterna questione a sinistra che ha pesato dannatamente sul vecchio PC, dalla presa di distanze di Giolitti del ‘56, alla nascita de Il Manifesto di Rossana Rossanda, giù per un crinale sempre più scosceso fatto di personalità modeste, di vessilli opachi, di parole d’ordine sconclusionate. Una solida tetragona maggioranza nelle mani dell’attuale Presidente del Consiglio non lo garantirebbe più di tanto, perché emerge oggi la scarsa capacità di tutta la classe politica nazionale, regionale e locale di comprendere i problemi, affrontarli, trarre le dovute conseguenze. Nessuno che abbia il coraggio di innovare, di accettare il rischio e pagarne le conseguenze, di un sovvertimento organizzativo sola via di salvezza per la rinascita dell’Italia.
Le parole di Carlo Cottarelli sono pietre acuminate in questo contesto. Il Paese non potrà mai evolvere finché consentiremo ad una classe di burocrati auto referenziali tra capi di gabinetto, capi degli uffici legislativi, magistrati dei Tar - e qui ci tacciamo per evitare conseguenze peggiori rispetto al resto della Magistratura - di fare il bello e il cattivo tempo, di scrivere leggi incomprensibili e di essere gli unici depositari di un interpretazione giuridica troppo spesso avulsa dalle esigenze pratiche della società civile. Ciò caratterizza il mal funzionamento dello Stato, senza che tutti costoro ne debbano rispondere in alcun modo, anche di fronte ai disastri più conclamati che siano alluvioni o norme disapplicate, dalle occupazioni abusive, alla svendita di beni pubblici, alla tolleranza di ogni tipo di malversazione e di comportamento arrogante.
Dobbiamo avere il coraggio di tagliare il viluppo d’interessi che sta uccidendo la speranza degli italiani, come certificano accurate indagini internazionali. Non saranno poche norme più o meno ambigue, vedi il Job Act, a cambiare verso al sistema produttivo. Inutile sfiancarsi in tristi guerre di posizione su elementi, di fatto, marginali. La crescita futura si gioca su un progetto Paese nuovo: cambiato nello stile, nei metodi di funzionamento, negli obiettivi, tagliando fuori ogni tipo di apparato pubblico o privato, sindacale o industriale, delle professioni come dei privilegi. Questo restituirebbe energia ed orgoglio, il resto sono solo “chiacchiere e distintivo” come richiama la celeberrima affermazione dal film Gli Intoccabili.
Sono d’accordo nell’evidenziare il peso eccessivo della burocrazia europea a Bruxelles. Altro è costruire un nemico esterno, roba da manuali di comunicazione delle giovani marmotte, per superare gli scogli nazionali. La scarsa considerazione di cui gode il nostro Paese in Europa è dovuta a quel misto di furbizia apparente, d’indisciplina e soprattutto di millanteria politica che da decenni caratterizza la nostra presenza nell’UE. Una linea ondivaga e scarsamente affidabile che nessuno ha saputo infrangere, nemmeno il professor Mario Monti, chiamato come salvatore della Patria e capace di produrre gli stessi effetti del ragionier Brambilla. La logica che anima gli algidi tutori di Bruxelles, a mio modo di vedere, ha invece sottili quanto rigidissime dottrine culturali e religiose. Li anima una visione smaccatamente luterana. Il principio che occorre pagare comunque il prezzo dei propri errori o di quelli dei propri famigliari o adepti, perché nessun’altra è la via per la redenzione. Una filosofia abissalmente lontana dalla dottrina cattolica dove è cruciale il perdono e la possibilità di riscatto, quella che determina la trasformazione dell’uomo anche il più iniquo. Una nuova vitalità che passa per una profonda maturazione ed una consapevolezza dei propri errori e il dovere verso la collettività di restituire, ove possibile, il mal tolto. È una concezione riformata quella che impone, da Lutero a Calvino, in primis l’espiazione della pena senza la quale non c’è riconoscimento sociale.
Le decisioni che da anni informano l’azione dei commissari europei di stretta osservanza anglo-tedesca sembra esprimere proprio questa concezione della politica. Sorda e cieca di fronte al collaudato fallimento di un rigorismo che sta inghiottendo il progetto più ambizioso costruito dal Vecchio Continente nella sua millenaria storia di conflitti, di sangue e di depauperamento della ricchezza collettiva. Quando la regola, benché ottusa, viene prima del primato dell’intelligenza e della sensibilità, non si lascia spazio ad alcun tipo flessibilità, men che mai economica.
Il peso delle lobby finanziarie sui popoli è oggi assolutamente insostenibile. La democrazia ha l’obbligo di recuperare lo spazio dei diritti e della dignità dei cittadini sottratto, in modo sempre più spregiudicato dai mandarini dell’arricchimento privato, per di più oscuro, violento quanto privo di ogni prospettiva storica prima ancora che morale. La tracotanza di questo mondo degli affari è tutta in un silenzio dell’informazione ancor più colpevole nello scenario europeo. L’Ansa, nel pomeriggio del 5 novembre scorso, ha battuto la notizia che il Fondo monetario internazionale, in un forum interno di approfondimento, ha candidamente ammesso di aver fornito un’indicazione gravemente sbagliata per le politiche economiche del 2010 e 2011, quando indicò come soluzione alla crisi economica la logica del rigore. Era una scelta improvvida, inutile, che ha dato pessimi risultati. Questa informazione che io considero cruciale per le attuali politiche socio economiche è stata deliberatamente ignorata da tutta la grande informazione. La stima verso molti operatori dell’informazione mi spinge a sostenere che si sia trattato, non di colpevole disattenzione, bensì di voluta censura da parte delle direzioni dei grandi gruppi editoriali italiani ed europei. Una notizia invero scomoda soprattutto per i falchi della BCE. La sordità ad ogni revisione, nonostante il peggioramento della situazione economica in tutto il vecchio continente è probabilmente figlia di una cultura tetragona che troppo spesso ha finito per travolgere i cultori tedeschi dell’ortodossia, dalla guerra dei trent’anni sino alla riunificazione degli anni ’90.
L’Italia, insieme ad altri paesi, è chiamata oggi a trasformare integralmente i propri modelli sociali, nonché abitudini e comportamenti sempre troppo superficiali che hanno creato una situazione di paralisi e di ingestibilità. Non saranno le scorciatoie di Matteo Renzi, quand’anche avessero successo, a dare un profilo nuovo e aperto sul futuro all’Italia, perché almeno due elementi mancano ancora all’appello: la consapevolezza dei limiti della società italiana attuale e la necessità di cambiare radicalmente ogni modello funzionale. Di fronte a questo la revisione costituzionale, la trasformazione del Senato e le altre riforme finiscono per essere appena un timido accenno di consapevolezza. Converrà abbandonare ogni arroccamento per mettere in campo coraggio e soluzioni, queste finirebbero per imporsi anche alla scontata sfrontatezza di un Presidente del Consiglio che per celia e per convinzione si propone come il solo elemento di novità. Un ruolo che non dobbiamo lasciargli: con la forza delle idee e la progettualità dei fatti, senza velleitari ideologismi o fughe nel passato.
20 novembre 2014