Passaggio a livello: Europa: una crisi di nervi annunciata. Aiuto, mi si sbriciola l'Unione
25-01-2016
Ubaldo Pacella
L’Europa attraversa il momento più critico dalla sua fondazione. Inutile tacere che gli egoismi nazionali e gli interessi dei governi hanno condotto la fragile UE ad un passo dal baratro. Burocrazie spocchiose, alimentate da interessi di lobby, politiche sotterranee divergenti, alleanze di comodo vengono ormai a galla, favorite dagli effetti nefasti di politiche economiche perverse, nonché dalle crescenti difficoltà del contesto internazionale, destinato ad una prolungata quanto complessa instabilità, sia in aree geografiche assai delicate, sia sullo scacchiere economico.
I momenti di grande tensione producono accelerazioni improvvise, difficili da tenere sotto controllo con gli strumenti convenzionali della diplomazia o della persuasione. Le leadership si corrodono evidenziandone i limiti, mentre le architetture burocratiche scricchiolano sinistramente e la macchina amministrativa si ferma generando pantani e nuovi conflitti.
L’Unione Europea rischia seriamente, per la prima volta, di andare in pezzi, travolgendo il vecchio continente. Nessuno può pensare di rimanere indenne da questa eventuale catastrofe economica e politica allo stesso tempo. Non è azzardato ipotizzare che 70 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale il continente potrebbe ripiombare in una condizione tragica, senza aver sparato un solo colpo, per nostra fortuna e con più di una speranza di positivo rilancio.
Voglio immediatamente sgombrare il campo da ogni riflesso provinciale italico. Nulla di tutto ciò dipende in men che minima misura da atteggiamenti guasconi e irriverenti. Le tensioni tra Roma e Bruxelles sono una tempesta in un bicchiere d’acqua, rispetto ai problemi che assediano e minano la UE. Avrebbe di certo fatto molto meglio il nostro Governo a seguire una linea diplomatica intelligente, cauta ma ferma, piuttosto che recitare la parte del Giamburrasca o di Pinocchio. Si mostra in tutta evidenza, in questo frangente, che le letture del signore fiorentino sono ferme ai Vamba, all’acutezza ironica del maestro Collodi, ma non hanno frequentato il genio di Machiavelli o di Guicciardini.
Le modeste considerazioni che desideriamo esporre, per onor di franchezza, sono del tutto aliene da effetti di politica nostrana. Dimentichiamo l’attualità, lasciamo il Governo Renzi a sbrogliare la matassa e ricucire gli strappi. Duelli lui con il tremulo Jean Claude Juncker, rude solo quando si sente protetto dall’aquila teutonica, o battibecchi con Manfred Weber che lo prende a pretesto per una polemica con la cancelliera di ferro, al cospetto della quale non trova tanto ardire. Vorremmo, almeno per una volta, vestire altri panni, magari da intellettuale di campagna.
Chi scrive è un europeista convinto da sempre, cresciuto tra Spinelli e Delors, ammiratore dei padri fondatori da Schumann a De Gasperi ad Adenauer, senza dimenticare Willy Brandt. L’Italia deve moltissimo a questo progetto. Ha trovato un itinerario di modernità tra mille ripensamenti, indicibili ritardi, odiosi distinguo, onerose interpretazioni, solo grazie a Bruxelles. Senza la UE il nostro sarebbe uno Stato alla deriva tra nord Africa, vizi levantini e criminalità latino americana.
Cerchiamo di capire, in somma sintesi, quali motivi mettono a dura prova la tenuta della UE, ne minano le fondamenta, accentuano i rischi di una scomposizione dagli effetti tragici.
Tutti e 28 i Paesi dell’Unione hanno chiare responsabilità, non equamente distribuite. Governi nazionali, economie locali, interessi lobbistici hanno ostacolato a vario titolo una programmata cessione di sovranità verso Bruxelles. Un passaggio ineludibile dopo la nascita dell’euro e della BCE. E’ da manuale, come ripetono monocordemente gli studiosi anglosassoni, che per gestire una stessa moneta si accentrino le responsabilità e le divisioni. Questo sino ad ora è stato impedito lucidamente da tutti gli Stati membri.
La UE assediata da grandi problemi strutturali come la crisi economica non risolta, il ruolo della finanza, l’immigrazione, il terrorismo internazionale, il mutamento repentino degli scenari geo politici rischia il naufragio, perché impotente ad adottare e far rispettare da tutti le decisioni assunte. Basti ricordare, in particolare, quella sulla redistribuzione delle quote di migranti decisa a Bruxelles e platealmente sconfessata dagli Stati dell’Est. Uno solo sembra il mantra dell’Europa in questi giorni infernali: il rispetto ottuso di regole economiche volute solo dalla Germania. Questi vincoli sono difesi come la muraglia cinese un tempo, per il resto assistiamo ad un triste tana libera tutti.
La responsabilità più grande di un possibile fallimento ha sì molti comprimari, ma una sola protagonista: la Germania di Angela Merkel. Quindici anni di leadership indiscussa a Bruxelles, una pervasività ossessiva in ogni ganglio della burocrazia, le nomine imposte utilizzando gli alleati naturali del nord, Olanda, Finlandia, Belgio e Lussemburgo in testa, le hanno consentito di dominare la scena al suono di stivali chiodati. Nessun dossier che provocasse qualche mal di pancia a Berlino ha visto la luce, inesorabilmente bloccato, mentre tutti gli altri Stati dovevano rimboccarsi le maniche e adottare le decisioni comunitarie. Il fiscal compact preteso dai governanti teutonici è la pietra tombale dello sviluppo del continente, eppure sotto il ricatto dello spread è stato votato da tutti e noi abbiamo in due giorni recepito in Costituzione il pareggio di bilancio, voluto da Mario Monti sotto la spada del Brenno del Reno.
L’economia e la società tedesca hanno forgiato la struttura della UE a loro misura, piegandola lucidamente all’interesse nazionale e al primato che intendevano conseguire: quello finanziario. Distratti se non assenti in politica estera, hanno lasciato che Francia e Gran Bretagna, potenze nucleari gelose del proprio passato imperiale, si illudessero di contare sullo scacchiere mondiale. Noi abbiamo il “monopoli” voi tenetevi i soldatini, potremmo ridurla così per qualche giovane lettore.
Il fatto incontrovertibile è che l’asse portante a Bruxelles dalla caduta del muro di Berlino è sempre stato tedesco. Il contrappeso politico svolto dalla Francia sino all’epoca di Mitterand si è trasformato, per il declino economico dei cugini transalpini, in un sostegno ancillare. Unico risvolto negoziale occulto la libertà di non applicare i parametri economici imposti a tutti gli altri Paesi dell’euro. Ricordiamo come già nel 2014 Francois Hollande sottolineò bellamente che la Francia sino al 2018 non avrebbe rispettato il deficit del 3%, senza che questo provocasse a Bruxelles le stesse condizioni pesanti imposte, non dico alla Grecia, al Portogallo o all’Irlanda, ma alla Spagna e all’Italia. Come dire siate alleati fedeli e silenziosi e noi faremo usbergo del nostro potere. Poteva questo non alimentare rigurgiti di populismo in ogni area del continente, aggravati dalla manifesta incapacità dei governi a far fronte ad una crisi economica lacerante ? No, senza ombra di dubbio. Responsabilità diffuse è chiaro, ma colpa ancor più grave di chi ha preteso di essere guida ed egemone nella UE, senza volerne sostenere gli oneri a tutto tondo. Potrebbero a New York accaparrarsi i benefici di Wall Street senza dividerne una parte con i marines del Texsas?
La pretesa, contro tutte le indicazioni degli economisti e le decisioni delle altre grandi banche centrali - dagli Stati Uniti alla Cina - di affrontare la crisi con politiche di rigore finanziario ha portato ad una stagnazione senza precedenti, a fenomeni perduranti di deflazione, con un insostenibile tasso di disoccupazione in ogni area continentale. Ha destrutturato la classe media e le politiche sociali, la vera innovazione creativa europea fonte di ricchezza e sviluppo dal dopoguerra.
I risultati sono ancor più preoccupanti sul piano politico. Incapaci e impossibilitati a favorire solidi interventi espansivi in economia, come gli investimenti sulle grandi reti infrastrutturali materiali e immateriali, o nell’innovazione tecnologica che generano valore e quindi non peggiorano il deficit economico, i governi nazionali sono in balia dei venti antieuropei, siano essi i rigurgiti nazionalisti palesemente antidemocratici come in Ungheria, e più di recente in Polonia, quelli del nord Europa con la Danimarca o quelli ispirati ad un radicalismo estremo e anarcoide come in Grecia e Spagna, ancor oggi senza un governo nazionale, in preda ad una fibrillazione istituzionale che evoca i fantasmi degli anni ’30. Qualcuno è interessato, in un simile preoccupante contesto, a destabilizzare anche l’Italia, la terza economia del continente e la seconda per manifattura? Chiudersi entro i confini di un rinato pangermanesimo può mai essere una prospettiva? Adombrare un nocciolo duro europeo di cui farebbero parte solo Germania, Francia, Belgio, Olanda e Austria è una risposta proponibile o il collasso di un continente, prima ancora che di 60 anni di politiche?
Occorre uscire dal seminato, superare i mai sopiti interessi nazionali o di parte, avere il coraggio, l’audacia, l’utopia di un grande progetto sociale, quello che diede vita alla Carta di Roma del ’56. L’umiltà di cedere ampie fette di sovranità, in una logica intrinsecamente federale della UE, deve guidare un nuovo nucleo di veri statisti, capaci di tratteggiare gli orizzonti dei prossimi decenni e non dei mesi, senza rincorrere affannosamente le emergenze.
C’è bisogno di cuore e speranza in Europa, coinvolgiamo in primis i giovani, lasciamogli spazio e ruolo, liberiamo lo sguardo e le energie verso il futuro. Abbandoniamo le tentazioni di chiusura, le nostalgie di un passato che comunque non tornerà. E’ sepolta la stagione degli imperi centrali e nessuno può illudersi di farla rivivere. Fare cose efficaci per gli uomini e i popoli d’Europa, al tempo stesso promuovere, come mai è stato fatto, lo sviluppo equo e solidale di quelle parti del mondo che più alimentano le migrazioni per le violenze, le guerre, la mancanza di pane e diritti. Potremmo ben dire di cambiare radicalmente registro. Non saranno i modesti propositi avanzati da Juncker, per altro nemmeno realizzati, a fornire vie convincenti. Un investimento di 315 miliardi di euro per le grandi reti infrastrutturali era di per sé poca cosa, lasciarlo nei file degli uffici di Bruxelles è il ridicolo. Né qualcuno tra il Reno e la Mosella può illudersi che regalare 3 miliardi di euro alla Turchia serva ad arginare la pressione migratoria. La UE paladina di democrazia e di regole, almeno a parole, offre un contributo ad uno Stato sempre più islamizzato e illiberale che da anni favorisce il terrorismo in chiave anti siriana e gli permette ogni sorta di commercio illegale, nessuno immagino vorrà sostenere che il “califfato dell’Isis” abbia vie di comunicazione e approvvigionamento che non attraversino i confini turchi. E’ una politica antimigratoria? Decisa comunque in poche settimane per l’urgenza tedesca di contenere i flussi sulla rotta balcanica, dopo che per anni la UE ha colpevolmente ignorato quanto avveniva sul Mediterraneo, destinando pochi spiccioli e malvolentieri ad una emergenza soprattutto italiana, greca e in parte spagnola.
Mario Draghi ha salvato l’euro nel 2012, chi salverà l’Europa oggi? Lo cerchiamo in rete, ci votiamo ai santi o ci rimbocchiamo tutti le maniche con dedizione, coraggio e passione.