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Privazione della libertà

La piazza e il tribunale. Femminicidio, ergastolo e abusi delle politiche criminali

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Le parole e le cose, 10 febbraio 2017

di Angela Condello e Valentina Calderone

Negli ultimi anni si assiste a una crescente confusione tra due luoghi simbolici, la piazza e il tribunale, che quasi sempre in epoca moderna sono stati separati. La piazza è il luogo delle passioni, del discorso pubblico, dell’assenza dei tecnicismi, delle voci individuali amplificate dalla comunità. Il tribunale è invece il luogo del diritto, il luogo in cui si dovrebbe realizzare l’equilibrio tra istanze individuali in modo spassionato ed equo, grazie all’uso dei codici, di procedure e di linguaggi tecnici. La piazza sta colonizzando il tribunale. Lo dimostrano molti fenomeni che possono ricondursi, sinteticamente, a due profili: un’insistente domanda di giustizia e una richiesta decisa di ordine e sicurezza.

1.

In questi giorni si discute di introdurre la pena dell’ergastolo per gli autori di femminicidio. È stato proposto di equiparare l’omicidio del coniuge, dell’ex-coniuge, della persona con cui si è uniti da rito civile, del convivente, all’omicidio di genitori o figli[1]. Il testo sarà in aula alla Camera il 27 febbraio.
Se la proposta dovesse passare, nella prospettiva del tribunale si trascinerebbero le relazioni affettive in un modello di famiglia più ampio del solo spettro coperto dai legami di sangue. Della prospettiva della piazza, si asseconderebbe il desiderio di punire la violenza sulle donne col massimo della pena. In una delle dichiarazioni sulla proposta di introdurre l’emendamento si legge “va bene la prevenzione, va bene intervenire a livello culturale, ma il diritto – che è parte della nostra cultura – deve prendere atto che un delitto consumato all’interno delle mura domestiche, dentro un circolo di fiducia, è più grave, non meno”.[2] Ora: da un punto di vista giuridico non si può collegare la gravità percepita dalla piazza all’esigenza di una risposta punitiva (che spetta al tribunale), come se servisse una soluzione dirompente e rumorosa per un problema che è molto più antico della nascita del diritto moderno, come se il carcere a vita rappresentasse l’unico deterrente e la sola risposta a fenomeni così radicati, e come se in termini di prevenzione, di intervento culturale, si fosse fatto tutto il possibile. La legislazione speciale non ha senso per due ragioni.

In primo luogo, perché l’aggravamento della pena rifletterebbe un uso della legge come strumento di restituzione della violenza. Uno strumento di repressione del gesto che amplifica gli effetti del gesto grazie alla funzione paradigmatica della pena, senza alcuna mediazione e con il solo risultato di proseguire le liti attraverso altri mezzi, attraverso un codice differente ma sempre conflittuale.[3] Soprattutto, aumentando la confusione tra istanze del discorso pubblico e sistema giuridico. Eppure l’ingresso del diritto nella modernità avrebbe dovuto produrre la separazione tra le istanze prodotte dal discorso pubblico e il sistema giuridico. Non solo: il carattere fondativo del diritto moderno non è la restituzione della violenza, ma la valutazione della pericolosità sociale degli individui in vista del reinserimento di chi è stato giudicato colpevole. Per nessuna ragione l’educazione e la rieducazione possono fondarsi su pene più severe, o sull’uso dell’ergastolo come risposta ai mali del mondo. Non è così che la nostra società sarà “riparata”, non è così che si potranno elaborare i traumi prodotti dal crimine.

La proposta di includere le relazioni affettive in un modello di famiglia più ampio del solo spettro coperto dai legami di sangue sembra nascere da motivazioni meno nobili. Ma se anche fosse presa alla lettera, una proposta simile risulterebbe discutibile e problematica. L’aggravante nel caso di omicidio di padri e figli risale a un modello antico di regolazione della società, un modello che attribuisce alla tradizionale famiglia di sangue un valore sacro e ne fa la traccia fondativa della collettività. È una proposta che si adatta male ai modelli familiari contemporanei, molto più fluidi e instabili. Accettando il principio della relazione, il diritto non sarebbe equo se non esaurisse tutte le possibilità dei vincoli affettivi e amorosi: potrebbe e dovrebbe dunque includere, ad esempio, le lunghe relazioni di amicizia che sono state come matrimoni.[4] E se proprio si volessero equiparare le relazioni affettive ai legami di sangue tradizionali, lo si potrebbe fare al ribasso, eliminando l’aggravante anche nei casi di omicidio di padri e figli, e non al rialzo, introducendola anche per gli altri casi.

In secondo luogo, su un piano più teorico, il diritto è un dispositivo che ricomprende in universali le possibilità del reale. Questa complicatissima e impossibile operazione deve certamente essere fatta nel modo più equo possibile, tendendo a realizzare un ideale di giustizia coerente con lo spirito del tempo. Per fare questo il diritto è chiamato a definire un’ontologia in cui fatti, atti, persone, cose, segni e significati sono organizzati in un sistema normativamente chiuso ma cognitivamente aperto. Si possono accogliere i cambiamenti della società, ciò è fuori discussione, ma l’apertura cognitiva può recepire e tradurre le istanze parziali solo laddove queste siano coerenti con il sistema. Il che non può (e non deve) significare che si possa tradurre ogni senso o desiderio di giustizia in un meccanismo universalmente valido per una realizzazione giuridicamente valida di un qualche principio di giustizia. Aggravare le pene per un reato che sarebbe comunque punito come omicidio significa compiere un’operazione giuridicamente inesatta e politicamente pericolosa. In nome della portata universale del diritto, se si accogliesse la proposta di introdurre la pena dell’ergastolo per femminicidio, si dovrebbe fare altrettanto per ogni gruppo sociale debole che in quel momento si trova al centro del discorso pubblico. Le conseguenze potrebbero essere incontrollabili.

Questa proposta ha un fondamento logico-giuridico molto debole ma poggia, in compenso, su una gestione mediatica e politica fragorosa di una materia delicatissima come il diritto penale, nella sua intersezione con temi sempre dibattuti come il corpo, l’affettività, la sessualità, e l’integrità psichica di donne e uomini. Se fosse accolta la proposta di estendere l’ergastolo ai femminicidi, il diritto penale verrebbe usato più per assecondare un’esigenza emotiva che per governare la comunità. Proprio perché il dolore, la vendetta e il perdono appartengono a una dimensione intima, un’operazione di politica del diritto giusta dovrebbe invece distinguere la dimensione più profonda dell’individuo, quella in cui per Kant si forma il sentimento, dall’agire pubblico. Il trattamento riservato a chi commette un delitto deve essere completamente diverso (per natura e intensità) da quello che noi esseri umani, colpiti feriti fragili addolorati disperati, vorremmo infliggere.

2.

Ci sarebbe invece da domandarsi quali siano realmente le urgenze politiche e giuridiche del nostro tempo. Qui veniamo al secondo dei due profili introdotti, quello della ricerca dell’ordine e della sicurezza – percepita o reale. Nel 1991 in Italia gli omicidi volontari sono stati 1.901. Ventiquattro anni dopo, nel 2015, per lo stesso tipo di reato si registravano 468 casi, con uno dei tassi più bassi in Europa. Eppure, a fronte di questo, la percezione collettiva della sicurezza è diminuita in maniera consistente negli ultimi anni, con una percentuale rilevante di cittadini convinti di vivere in un paese insicuro. Secondo il IX Rapporto sulla Sicurezza e l’Insicurezza sociale, in Italia e in Europa (marzo 2016) quasi l’81% degli italiani riteneva che i reati fossero aumentati nell’ultimo anno. Tutti i dati disponibili restituiscono una realtà diametralmente opposta. Impossibile non attribuire la responsabilità di questa ansia collettiva anche ai mezzi di informazione se si considera che in media il 49% dello spazio dei telegiornali italiani viene dedicato alla cronaca nera. A fronte di questi dati, la piazza si rivolge al tribunale. La crescita delle aspettative individuali e collettive nei confronti del diritto è ipertrofica.

Un discorso mediatico così distorto intorno al diritto ha molte manifestazioni. Qualche giorno fa, in un’intervista al TG1 le vittime della strage di Viareggio hanno chiesto giustizia: Moretti, ex Amministratore delegato di Fs e Rdi, ha ricevuto una pena di “soli” sette anni. Negli stessi giorni, un disperato “gladiatore” (così si definisce su Facebook l’uomo che pochi giorni fa a Vasto ha ucciso l’omicida della propria moglie in un incidente stradale) ha chiesto giustizia, perché le pene non bastavano a colmare il suo indiscutibile dolore. Non soddisfatto, non risarcito, è passato all’azione: si è fatto giustizia. Le istanze premoderne dell’uomo di Vasto muovono da un dolore che non è neanche il caso di discutere, ma quando vengono amplificate dalla percezione diffusa di insicurezza, disordine e scarsa efficienza del sistema giuridico dovuta a pene troppo lievi, fanno della sua battaglia una crociata verso un ordine generale da ristabilire attraverso pene più severe. Le voci individuali vengono promosse a cori tragici che invocano giustizia e, coerentemente con la natura tragica della richiesta, risolvendosi in una domanda di vendetta. Un altro esempio significativo è contenuto in un fotogramma di circa un anno fa: l’allora premier Matteo Renzi veniva ritratto mentre apponeva la sua firma alla legge sull’omicidio stradale, penna in mano, chino sui fogli e circondato da alcuni dei familiari dell’Associazione vittime di incidenti stradali. “Nessuno spirito di vendetta”, aveva dichiarato.

Sembra dunque che il tribunale (sotto forma di modifiche legislative, punizioni, sentenze) non faccia più quello di cui la piazza avrebbe bisogno: epurazione, illustrazione, ammonimento, catarsi. La piazza chiede al tribunale di aggiungere valore simbolico al dato apparentemente sterile del tecnicismo giuridico di superare il limite della regola di diritto trascendendone l’immanenza. Questo è ciò che avviene quando si dice che “la pena non basta”. Non basta alla piazza, pur bastando al tribunale. Non realizza la vendetta, pur rispettando la legge. La piazza vuole che il tribunale produca risposte a un senso molto più teologico che secolare del giusto e dell’ingiusto, placando il dolore con altro dolore. E rischiando, così, di usare il diritto come mimesi della violenza e della brutalità.

Una simile domanda di giustizia, da realizzarsi attraverso lo strumento giuridico, è anacronistica e sbagliata. Chiedere al diritto di fare ciò che il diritto non può fare significa misconoscerne il potenziale e sottovalutarne il limite. Il tribunale, al contrario della piazza, è il luogo dell’equilibrio e dell’ordine immanenti. Ciò che il diritto può fare è disporsi di meccanismi rimediali per ricostruire equilibri tra soggetti, valori, interessi. Ciò che il diritto non può fare è restituire l’irrestituibile. Ciò che il diritto non deve fare è tentare di ricostruire gli equilibri sfalsati attraverso pene maggiori o nuove categorie simboliche nella costruzione giuridica del reale.

3.

In tedesco ‘giustizialismo’ si dice Gerechtigkeitsfimmel. Der Fimmel si traduce con: fissa, mania, fregola. Il significato è, dunque, univoco e allude all’area della patologia, più o meno acuta. Siamo in presenza, comunque, di qualcosa di molto simile a una nevrosi, che porta a comportamenti esasperati, o, comunque, alterati nel senso di un amore per la giustizia che trascende in uso deformato. Ma non si tratta solo di un’interpretazione scorretta o squilibrata e nemmeno di un abuso: ciò cui si assiste è una sorta di rovesciamento della giustizia, attraverso una sua applicazione paranoica (ecco la mania), nel suo contrario.

La giustizia non può essere assoluta non solo perché è affare di uomini, ma anche perché la sua ipostatizzazione – da regolazione del conflitto e sanzione del reato a virtù suprema – porta a una conseguenza fatale. Il culto della giustizia intesa come mera astrazione virtuosa si traduce, nel concreto della vita quotidiana, in un’identità che ha natura quasi confessionale, e che nasce dal presupposto della appartenenza a una comunità titolare di ciò che costituisce il fondamento di ogni teologia: la conoscenza della verità e l’accesso al bene. Insomma, in qualcosa che non esiste né nella piazza, né nel tribunale.

[1] Art. 577 Codice penale.

[2] La Repubblica, 02.02.2017, Intervista di Annalisa Cuzzocrea all’On. Fabrizia Giuliani.

[3] Per riprendere i termini usati da Gherardo Colombo, che nel suo Il perdono responsabile ha ragionato sul senso delle pene detentive e delle loro alternative – “cosa riceve la vittima dalla sofferenza del colpevole? Solo ed esclusivamente la soddisfazione dell’istinto di vendetta”.

[4] E. Brake, Minimizing Marriage: Marriage, Morality and the Law, Oxford (2012).

Pubblicato: Venerdì, 10 Febbraio 2017 13:06

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